"Le Città Mitiche di El Dorado e di Akakor" di Federico Bellini
L’esistenza di una misteriosa città,
nascosta sotto i fitti alberi della foresta amazzonica, non era nata dal nulla.
Probabilmente tutto principiò all’epoca delle prime conquiste portoghesi e
spagnole, quando iniziò a circolare la voce dell’esistenza di El Dorado (abbreviazione spagnola di El indio Dorado) un luogo leggendario
in cui vi sarebbero immense quantità di oro e pietre preziose, oltre a conoscenze
esoteriche antichissime. Un luogo situato al di là del Mondo Conosciuto, un luogo dove i bisogni materiali si dice siano
appagati e gli esseri umani vivrebbero in pace tra loro godendo di ogni
benessere; leggenda che viene spesso associata al Paradiso Terrestre o all'Eden.
In seguito alla scoperta europea delle Americhe il mito di un luogo leggendario
e ricchissimo acquisì nuova linfa. Gli indigeni americani, che facevano largo
uso di monili in oro fecero pensare agli spagnoli di essere giunti vicino ad un
luogo mitico ricco di oro e dalla quale si rifornivano, non avendo trovato
riscontro nelle loro tribù di capacità tecniche nell’arte orafa. Uno dei primi
spagnoli a cercare un luogo mitico fu Juan Ponce de León, che nel 1513 si
spinse sino in Florida. Hernán Cortés e Francisco Pizarro, nel conquistare gli
imperi azteco e incas, rispettivamente, credettero di essere giunti in questo
luogo leggendario, ma poi la loro sete di potere e ricchezza li spinse a
continuare la ricerca.
Furono proprio i tesori riportati in
Spagna da questi conquistadores a spingere i banchieri Welser d'Asburgo a farsi
coinvolgere nella ricerca dell'Eldorado.
Quando Sebastiano Caboto fu al comando, nel 1525, di una spedizione che aveva
come scopo la ricerca del Birù (o Perù), i suoi luogotenenti, tra i quali
Francisco Cesar, si inoltrarono nell'interno del Rio della Plata, e forse
giunsero al confine dell'attuale Bolivia. Al loro ritorno si diffuse una
leggenda, che narrava di una città ricchissima, pavimentata in oro, che loro
non erano riusciti a vedere per pochissimo; questa città fu chiamata "Ciudad de los Cesares". Poi fu la
volta di Pedro de Heredia che depredò l'oro dei Sinù per lunghi anni e cercò
una mitica miniera o città, che per lui era situata al confine tra l'attuale
dipartimento di Córdoba e Antioquia (Colombia). Diego de Ordaz, inoltre, risalì
il Rio Orinoco nel 1531 alla ricerca di una città d'oro, ma non la trovò, anche
se alcuni indigeni gli dissero che più avanti nella selva vi era una montagna
di smeraldo.
Tra i finanziatori della spedizione di
Caboto del 1525 c'era anche Ambrosius Dalfinger da Ulma (1500-1533) che in
realtà si chiamava Ambrosius Ehinger. Quando i Welser ottennero da Carlo V la
concessione di sfruttamento mandarono Dalfinger a dirigere la colonia, col
titolo di "Governatore delle isole
di Venezuela".[1] Dalfinger nei documenti
spagnoli è chiamato Cinger o Alfinger, e i coloni lo soprannominarono per
comodità Micer (messere) Ambrosio, egli si stabilì poi a Coro, allora l'unico
insediamento della colonia, e nel 1529 guidò una prima spedizione esplorativa
verso il Lago di Maracaibo; qui, nei pressi della strozzatura che divide il
lago dal golfo omonimo, fondò la città di Maracaibo e sul versante opposto la
città di Nuova Ulma, seppure oggi la città sia scomparsa ma il posto è chiamato
Campo de Ambrosio.
Dalle popolazioni rivierasche
l'interprete e scrivano del gruppo, Esteban Martín, seppe che una popolazione
dell'interno che viveva sugli altopiani, usava l'oro come merce, in cambio del
cotone grezzo, dei coralli, delle perle e delle conchiglie giganti che gli
indigeni usavano come trombe cerimoniali, inoltre, si diceva che il loro
territorio era ricco di pietre verdi che gli spagnoli supposero fossero
smeraldi. Martín confidò le proprie idee a Pedro Limpias, e pare sia stato
proprio quest'ultimo, al ritorno a Coro, a diffondere le voci sul mitico regno
dell'oro: da lì, furono complessivamente cinque le spedizioni partite dal
Venezuela alla ricerca di questo luogo mitico.
La prima, guidata dallo stesso
Dalfinger, durò dall'agosto 1529 al 18 aprile 1530, quando i resti decimati
della spedizione ritornarono a Coro. Dalfinger, debilitato e febbricitante,
prima di imbarcarsi per Santo Domingo nominò provvisoriamente nel giugno 1530,
Nikolaus Federmann il Giovane da Ulma (1506-1541), vicegovernatore, capitán general delle forze armate e alcalde mayor di Coro. Egli, però,
contravvenendo agli ordini di Dalfinger, allestì una propria spedizione di un
centinaio di uomini. Dedito alla scrittura, sia in italiano che in spagnolo,
fu autore di un saggio etnografico sulle popolazioni indigene conosciute
durante il suo primo viaggio, di grande interesse dato che di quei popoli,
sterminati di lì a poco, ne è andata persa ogni memoria.[2]
La sua prima spedizione durò dal 16
settembre 1530 sino al 17 marzo 1531, senza però approdare a nulla, e
Dalfinger, ritornò così a Coro quando seppe che Federmann si era addentrato
nell'interno abbandonando la colonia, esiliandolo dal Venezuela per quattro
anni. Per la seconda spedizione, Dalfinger partì, invece, il 9 giugno 1531 da
Coro e vi fece ritorno il 2 novembre 1533. Fu una delle più avventurose e
tragiche, al termine della quale egli stesso morì, colpito da una freccia
avvelenata.
Il suo posto fu preso da Georg Hohermuth
da Spira (1508-1540), ribattezzato dagli spagnoli Jorge de Espira, inviato dai
Welser alla testa di un folto gruppo di coloni formato da spagnoli e tedeschi,
oltre ad alcuni fiamminghi, inglesi, scozzesi e italiani. Hohermuth organizzò
una sua spedizione, forte di 500 uomini, partita nel giugno 1535 e terminata il
27 maggio 1538. Il diligente cronista di questa spedizione fu Philipp von
Hutten, cugino del famoso poeta e umanista, il cavaliere Ulrich von Hutten.
Gli esploratori percorsero ben 1500 miglia verso sud, raggiungendo il Rio
Guaviare presso l'odierna Bogotà, e passando molto vicino all'altopiano di
Jerira abitato dalle tribù Chibcha, all'origine della leggenda dell'El Dorado, ma senza trovare una via
d'accesso.
Anche questa spedizione finì
tragicamente, perché dapprima morì il veterano Esteban Martín, e che aveva
partecipato a tutte le esplorazioni precedenti, costò inoltre la vita di trecento
persone, tra cui lo stesso Hohermuth, che ricoverato a Santo Domingo non riuscì
più a riprendersi dalle traversie subite durante il viaggio. Infruttuosa fu
anche la seconda spedizione di Federmann, rientrato dopo l’esilio forzato,
avendo avuto l’incarico di esplorare le terre ad ovest del Lago Maracaibo.
La leggenda dell'El Dorado riprese vigore quando i conquistatori spagnoli, Gonzalo
Jiménez de Quesada e Sebastián de Belalcázar, sentirono parlare per la prima
volta di un capo indigeno che si immergeva, ricoperto di polvere doro, in una
laguna, gettando offerte sempre d’oro nelle profondità delle acque; sarebbe
stato proprio Belalcazar a coniare per primo il termine "El indio Dorado", abbreviato in El Dorado. La laguna in cui compiva le
abluzioni rituali era la laguna di Guatavita, nelle vicinanze della attuale
città di Bogotà, fondata da Quesada il 29 aprile 1539, durante una breve
cerimonia alla presenza degli altri due comandanti, e caso unico nella storia,
ben tre conquistadores e-rano giunti
contemporaneamente e per vie diverse nello stesso luogo, attirati dalla stessa
leggenda.
Seguirono predazioni da
parte di Quesada e degli altri avventurieri dove alla fine, non solo non fu
trovato niente, ma vennero sterminati centinaia se non migliaia di indios.
Altre spedizioni si avvicendarono poi nelle profondità della selva amazzonica,
tra cui quella dell’esploratore estremegno Francisco de Orellana, di Francisco
Vázquez de Coronado che cercò a lungo le Sette
Città di Cibola inutilmente, e persino del sanguinario Lope de Aguirre che
nel 1569 prese il comando, uccidendo Pedro de Ursúa, a capo di una spedizione
nella selva, proclamandosi addirittura "Re dell'Amazzonia"; più tardi venne giustiziato in Venezuela.
Più recentemente, nel 2001 l’archeologo
Mario Polia ha scoperto, negli archivi di Città del Vaticano, delle lettere
datate 1600 del missionario Andrea Lopez. Egli scrisse dell’esistenza di una
città ricchissima e nascosta nella selva a circa dieci giorni di cammino da
Cuzco, presso una cascata che veniva chiamata Paititi. Sembra che persino il
Papa fu informato dell’eventuale ubicazione esatta della città, seppure il
Vaticano non rivelò mai tale segreto. Ulteriori spedizioni sono state condotte
anche nel 2002 dal polacco Jacek Palkiewicz, nel 2006 dallo statunitense
Gregory Deyermenjian e il peruviano Paulino Mamani, nella selva di Pantiacolla
(Amazzonia peruviana), arrivando alla conclusione che possano esistere persino molteplici
città d'oro, anche se in luoghi assai diversi e ancora tutti da scoprire.
Dopo le imprese di Percy Fawcett, un
altro personaggio, ispirato dalle sue avventure, tentò nuovamente di risolvere
il mistero, un giornalista e ricercatore tedesco: Karl Brugger. Conobbbe un
capo tribù indiano degli Indios, un certo Tatunca Nara, che gli raccontò
l’incredibile storia del suo popolo, erede degli Dèi, nonché delle loro strabilianti città megalitiche nel cuore
della giungla amazzonica, e di quelle sotterranee ereditate. Ascoltò e registrò
ogni suo racconto su 10 nastri e, andando ad incontrare diverse personalità
nelle strutture di punta della società brasiliana, si rese conto che in molti
conoscevano questo indios, e cominciò a pensare che la sua storia fosse reale e
poteva essere in qualche modo verificata.
Incontrò nuovamente questo capo tribù in
più occasioni e alla fine decise di andare insieme a lui, a vedere i luoghi
perduti di questo sedicente popolo, nel frattempo pubblicò anche un libro ("The Chronicle of Akakor",
pubblicato nel 1976) dove parlò dell’incredibile storia che gli fu raccontata,
ma quando era sul punto di vedere con i suoi occhi quello che aveva ascoltato,
preparando la sua spedizione per raggiungere Akakor[3], venne ucciso a Rio de
Janeiro e tutto il materiale raccolto dallo scrittore fu poi sequestrato.
Si è scoperto in anni più recenti che
questo Tatunca Nara era in realtà una guida per turisti e avventurieri alla
ricerca di piramidi, monili, reperti o tracce di luoghi ancora sconosciuti
nella foresta amazzonica, ma sia dopo la morte di Brugger e la scomparsa di alcuni
dei suoi clienti, si cominciò a sospettare di lui. Infatti, nel 1990, l’avventuriero,
dopo aver scoperto tra l’altro di non essere un’indios ma un tedesco di nome Hans
Günther Hauck, fu coinvolto in una spedizione dal ricercatore tedesco Rüdiger
Nehberg e il produttore cinematografico Wolfgang Brög, i quali ingannarono
Tatunca per essere portati nella giungla, durante la quale la sua storia
cominciò ad essere svelata. Il risultato fu un documentario di un'ora, Das Geheimnis des Tatunca Nara (Il Mistero di Tatunca Nara), mostrato
sulla rete ARD nel 1991. In questa occasione lo stesso Tatunca dichiarò: “Ho ucciso molte persone, ma ero un soldato e
portavano armi. Non sono innocente, ma non ho ucciso quelle tre, come mi hanno
accusato di fare."
Avventuriero o meno, Indios o cialtrone
e truffatore, o persino assassino come vogliono alcune accuse, fatto sta che da
questa storia sono emersi degli aspetti alquanto interessanti e che questo
Tatunca Nara o Hans Günther Hauck, non possa essersi inventato tutto di sana
pianta, ma che in qualche maniera sia stato capace di mettere insieme varie
fonti e informazioni recepite durante gli anni delle sue losche scorribande.
Attraverso Karl Brugger si venne a
conoscenza che questa “Cronaca di Akakor”
venne scritta su legno, poi pelle e infine pergamena, conservata da alcuni
sacerdoti e che un Vescovo, un certo Grotti, si dice che fu l’unico a vederne
l’originale, ma fu poi anche lui ucciso e gli appunti trafugati dal Vaticano.
La Cronaca raccontava del tempo in
cui gli Dèi discesero dal cielo e
colonizzarono la Terra, fino a giungere alla nostra epoca. In quel tempo questi
Dèi incontrarono gli uomini primitivi
che ancora vivevano in piccoli gruppi e nelle caverne, e che dopo l’arrivo di
questi Esseri dal Cielo, portarono la
Civiltà. In tutti i miti antichi, dai
Toltechi ai Maya, dagli Egiziani agli Indiani, etc., si parla di una Età dell’Oro dove migliaia e migliaia di
anni fa, popoli evoluti abitavano insieme agli Dèi sul nostro pianeta.
Il Popol
Vuh[4] e la Bibbia o il Mahabharata,
parlano di antichissime guerre fra Dèi,
mentre l'Edda germanica persino di
una insurrezione dei Mondi Inferiori
terminata in un immane disastro. Per Platone, nel 9.500 a.C. Atlantide si
inabissò negli oceani, e Tatunca Nara affermò che nel 10.468 a.C. vi fu una
guerra fra razze divine. Nella Cronaca
si spiega che Machu Picchu fu
la dimora di Lhasa, il sublime Figlio
degli Dèi, e col tempo venne lasciata in rovina per sfuggire ai bianchi.
Nel 1961, l'etnologo brasiliano Orlando Villas Bôas, ebbe un primo contatto con
una tribù, gli Aruak, e all’epoca dichiarò: “Gli indigeni ci vennero incontro, come se ci avessero attesi. Ci
offrirono doni. Dissero che avevano il ricordo tramandato di generazione in
generazione del ritorno di benefattori stranieri”. Del resto, la stessa
cosa capitò anche a Hernán Cortés, lo spietato conquistatore spagnolo che nel
primo contatto con gli Incas, secoli prima, incontrò persone “docili, pacifiche, amorevoli, gentili e
sorridenti”; li trucidarono tutti.
Vera o meno che sia questa storia,
leggende riguardanti mitiche città sepolte o sotterranee nella foresta
amazzonica, si rincorrono da ormai oltre 500 anni e ancora nessuno è riuscito
ad arrivare alla conclusione di un così grande mistero. Forse, però, una
possibile ulteriore strada da percorrere è quella singolare di Padre Paolo
Crespi, e che alla fine non si discosta molto dalle leggende di El Dorado o di Akakor, e che potrebbe persino essere integrata in una nuova
prospettiva di ricerca. Nato a Milano nel 1891 e morto nel 1982, fu un prete
missionario salesiano che visse nella piccola città di Cuenca, in Ecuador, per
più di 50 anni, dedicando la sua vita al culto e alle opere di carità,
coltivando anche molti interessi, in quanto fu educatore, botanico,
antropologo, musicista, ma soprattutto un grande umanista. Nel 1927, la sua
vocazione missionaria lo portò a vivere fianco a fianco con gli indigeni
ecuadoregni, facendosi carico delle loro necessità e conquistandosi il rispetto
della tribù dei Jibaro, i quali cominciarono a considerarlo come un vero amico,
e come segno di riconoscenza, nel corso dei decenni gli donarono centinaia di
manufatti archeologici risalenti ad un’epoca sconosciuta (spiegando che si
trattava di oggetti trovati in un tunnel sotterraneo che si trovava nella
giungla dell’Ecuador).
Molti di essi erano in oro, intagliati
con geroglifici di una lingua sconosciuta e che ancora oggi nessuno è stato in
grado di decifrare. Gli oggetti erano stati recuperati dagli indios in una
caverna molto profonda, detta in spagnolo Cueva de los Tayos, posizionata nella
regione amazzonica conosciuta come Morona Santiago. La grotta, che si trova a
circa 800 metri sul livello del mare, fu chiamata Tayos a causa dei
caratteristici uccelli quasi ciechi che vivono nelle sue profondità.
Essendo un uomo di cultura, Padre Crespi
si rese conto ben presto che gli straordinari manufatti presentavano
inquietanti analogie con l’iconografia delle antiche civiltà mesopotamiche,
suggerendo un qualche collegamento tra culture sviluppatesi su versanti opposti
del pianeta. Nella sua ingenuità di uomo di fede e di cultura, il religioso non
si rese conto che le sue idee mettevano fortemente in discussione le teorie
consolidate dell’archeologia convenzionale, dal momento che i manufatti donatigli
avevano formato una collezione di oggetti davvero numerosa, tanto che nel 1960
Crespi chiese e ottenne dal Vaticano l’autorizzazione per creare un museo nella
missione salesiana di Cuenca. Quello di Cuenca fu il più grande museo che sia
mai stato creato in Ecuador, almeno fino al 1962, quando un misterioso incendio
distrusse completamente la struttura, e la maggior parte dei reperti andò
perduta per sempre; seppure si racconta che Crespi, pare sia riuscito a salvare
alcuni pezzi nascondendoli in un luogo a lui solo noto.
Nel 1969, Juan Moricz, un ricercatore
ungherese naturalizzato argentino, esplorò a fondo la caverna, trovando molte
lamine d’oro che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici,
statue antiche di stile mediorientale, e altri numerosi oggetti d’oro, argento
e bronzo: scettri, elmi, dischi, placche; si dice fu lo stesso Crespi ad
indicare a Moricz come trovare questa grotta. Nel 1972, però, toccò allo
scrittore svedese Erik Von Daniken a diffondere la notizia del ritrovamento del
ricercatore ungherese, e quando la storia dello strano ritrovamento di Moricz
si sparse nel Mondo, molti studiosi decisero di esplorare la caverna con
spedizioni private. Una delle prime e più ardite di queste missioni fu quella
condotta nel 1976 dal ricercatore scozzese Stanley Hall, alla quale partecipò
nientemeno che l’astronauta statunitense Neil Armstrong, il primo uomo che mise
piede sulla Luna, il 21 luglio 1969! Si narra che l’astronauta, riferì che i
tre giorni nei quali rimase all’interno della grotta, furono ancora più
significativi del suo leggendario viaggio sul nostro satellite...
Verso la fine degli anni ’70,
l'archeologo Gabriele D’Annunzio Baraldi visitò a lungo Cuenca, dove conobbe
sia Carlo Crespi che Juan Moricz. In quell’occasione Carlo Crespi confidò
all’italo-brasiliano che la Cueva de los Tayos era senza fondo e che le
migliaia di diramazioni sotterranee non erano naturali, ma bensì costruite
dall’uomo nel passato. Secondo Crespi la maggioranza dei reperti che gli
indigeni gli consegnavano provenivano da una grande Piramide sotterranea,
confessò poi che per timore di futuri saccheggi, ordinò agli indigeni di
coprire interamente di terra la stessa Piramide, in modo che nessuno potesse
mai più trovarla. Quando Carlo Crespi morì, nell’aprile del 1982, la sua
fantasmagorica collezione d’arte antidiluviana fu sigillata per sempre, e
nessuno poté mai più ammirarla. Vi sono molte voci sulla sorte dei
preziosissimi reperti raccolti pazientemente dal religioso milanese, secondo
alcuni furono semplicemente inviati in segreto a Roma, e giacerebbero ancora
adesso in qualche caveau del Vaticano.[5]
[1] Il nome Venezuela è stato storicamente
attribuito al navigatore italiano Amerigo Vespucci che navigò sulla costa
settentrionale del Sud America insieme ad Alonso de Ojeda nel 1499, nel corso
di una spedizione navale esplorativa che raggiunse la costa nord-occidentale
del paese, ora nota come Golfo del
Venezuela. In quel viaggio, l'equipaggio osservò le costruzioni degli
indigeni erette su palafitte di legno fuori delle acque, e tali costruzioni
ricordarono a Vespucci la città di Venezia, e lo ispirarono nell'attribuire il
nome di Venezziola o Venezuola alla regione. Il termine che in italiano
rinascimentale aveva il significato di Piccola
Venezia, si trasformò successivamente in spagnolo in Venezuela. Altre
versioni, storicamente meno accreditate, affermano che il nome Venezuela sia di
origine indigena e non un diminutivo di Venezia, seppure, tuttavia, la prima
versione rimane la più ampiamente accettata come spiegazione sull'origine del
nome del paese.
[2] Il saggio, Indianische Historia, Eine Schöne kurtzweilige Historia fu
pubblicato ad Hagenau nel 1557 dal cognato Hans Kiefhaber.
[3] Akakor è un ipotetico regno sotterraneo
descritto nel libro La Cronaca di Akakor
(Die Chronik von Akakor, 1976) del
giornalista tedesco Karl Brugger (†; 1985), un best seller internazionale negli
anni Ottanta. L’autore collocava Akakor
tra Brasile e Perù, nelle profondità della selva amazzonica, presso le sorgenti
del Purus, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni. Nel 1972 Karl Brugger,
corrispondente della ARD, narrò di aver conosciuto un indigeno della foresta
amazzonica che parlava un buon tedesco. Secondo Brugger questo indigeno,
chiamato Tatunca Nara, si rivelò essere il sovrano del popolo degli Ugha
Mongulala e principe di Akakor, una mitica città sotterranea un tempo sede e
capitale del terzo impero d'America (dopo l'azteco e l'incaico). Secondo
Tatunca Nara, Akakor avrebbe prosperato fin dal XII millennio a.C., e da Akakor
si sarebbe originata la cultura di Tiahuanaco e la cultura Inca. Inoltre,
Tatunca Nara riferì a Brugger che un gruppo di SS nazisti raggiunse in
sommergibile Akakor alla fine della Seconda
Guerra Mondiale, integrandosi nella vita della tribù. Nel quarto capitolo
della tetralogia dedicata ad Indiana Jones, Indiana
Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, Akakor (che nel film è però
chiamata Akator) è identificata come El
Dorado e sede dei teschi di cristallo.
[4] Il Popol Vuh ("Libro della Comunità", Popol Wuj nella moderna trascrizione
Quiché) è una raccolta di miti e leggende dei vari gruppi etnici che abitarono
la terra Quiché (K'iche'), uno dei regni maya in Guatemala.
[5] L'Archivio
Segreto Vaticano (in latino: Archivum
Secretum Apostolicum Vaticanum) è l'archivio centrale della Santa Sede,
dove sono conservati tutti gli atti e i documenti che riguardano il governo e
l’attività pastorale del Romano Pontefice e dei relativi uffici connessi. Sono
accessibili alla consultazione solo i documenti precedenti al febbraio 1939
(pontificato di Pio XI) e solo a ricercatori in possesso di determinati titolo
di studio, previa domanda scritta e lettera di presentazione di un istituto di
ricerca storico-scientifica accreditato. Nel XX secolo, Papa Paolo VI volle che
sotto il Cortile della Pigna fosse costruito un nuovo Archivio, un bunker
sotterraneo immenso con 85 km di scaffali, che ne fanno la più grande banca
dati storica del Mondo.
*
"Il Cammino del Viandante" di Federico Bellini
Parte III - Mitogenesi / Lezione 10, 10.2 - Le Città Mitiche di El Dorado e di Akakor